La Russia da terra promessa del lusso e dei consumi, si sta ultimamente trasformando per molte aziende occidentali in un vero e proprio incubo. La crisi del rublo iniziata fin dai primi mesi del 2014, con il passare del tempo ma soprattutto nelle ultime due settimane, è diventata una caduta senza freni. Il valore del cambio euro/rublo, piuttosto che quello dollaro/rublo, è calato nell’ultimo anno di oltre il 50%, determinando una situazione di repentino e inaspettato peggioramento del potere d’acquisto per larga parte della popolazione russa.
Gli effetti sugli operatori che commercializzano beni d’importazione sono ovviamente devastanti, da un lato la svalutazione del rublo ha imposto loro da un giorno all’altro un consistente aggiustamento dei prezzi, dall’altro l’entità dell’aumento necessario per non essere in perdita è così consistente da precludere la possibilità di spesa ad una larga parte della potenziale clientela. Il risultato inevitabile di questo circolo vizioso è il crollo degli affari nell’immediato e prospettive molto incerte per il futuro. L’economia russa, negli ultimi due anni soffriva già di una crescita anemica unita ad un aumento consistente dell’inflazione. Il collasso del prezzo del petrolio sui mercati mondiali, unito all’impatto crescente delle sanzioni economiche occidentali a seguito della politica espansionistica in Ucraina, hanno dato il colpo di grazia. Questi due fattori destabilizzanti, si sono innestati ad appesantire un tessuto economico fragile e vecchio, nonché troppo dipendente dalle esportazioni di materie prime, così come spesso basato sulla parte grigia o peggio nera dell’economia.
La classe media, prodotto e insieme fondamento del consenso dell’era Putin, si ritrova così a seguito della repentina svalutazione con in mano il classico “pugno di mosche”, mentre i ricchi che di solito sono provvisti di cospicui patrimoni esteri in dollari o euro, paradossalmente ne vedono crescere il valore. In altre parole più cala il valore del rublo, più aumenta il valore del patrimonio “nero” accumulato all’estero dalle classi dirigenti. Le aziende occidentali, sia del lusso che dei beni di consumo, stanno cercando in qualche modo di correre ai ripari, anche perché’ spesso hanno investito pesantemente nell’espansione della rete distributiva o in siti produttivi locali. La Russia era diventata per molti, dal turismo al retail passando per l’industria automobilistica e l’agricoltura, uno sbocco importante, quindi ritirarsi dal mercato non è una decisione facile da prendere.
Il primo settore in grossa difficoltà è quello automobilistico, già in decisa contrazione per le condizioni economiche generali, in queste ultime settimane è stato come “congelato” dalle case automobilistiche che sperano in almeno una stabilizzazione, o meglio ripresa, della valuta. Il problema riguarda in primis ovviamente gli importatori, Volkswagen ed i marchi premium tedeschi così come anche Jaguar Land Rover hanno fermato temporaneamente le vendite e anche le consegne, non sapendo come fare i listini in rubli e non potendo vendere sottocosto quello che hanno negli autosaloni e magari non è stato ancora pagato in patria.
I produttori stranieri che assemblano in loco si trovano anch’essi in estrema difficoltà, la pesante dipendenza nei confronti dei fornitori di componentistica occidentali, senza i quali la produzione è impossibile, li espone alle fluttuazioni valutarie per una gran parte dei costi di produzione. Eloquenti in proposito le dichiarazioni di Carlos Ghosn, Ceo di Renault/Nissan diventata leader di mercato grazie alla acquisizione di AutoVaz, il quale ha esplicitamente parlato di “bagno di sangue” per il business automotive.
Il lusso ha problemi analoghi, anche se per i super ricchi il cambio è ininfluente e possono comunque acquistare in dollari, la gran massa della clientela aspirazionale, costituita dalla classe media, con gli aumenti di prezzo è stata tagliata fuori. Se si considera l’impatto dal punto di vista sociale, il problema è acuito dal fatto che il pubblico è abituato ormai da anni a standard di consumo crescenti ed allineati nella qualità a quelli occidentali. L’offerta, per quanto riguarda i beni di lusso, è integralmente coperta come ovvio da merci importate, del resto vista l’importanza che gioca il brand nelle motivazioni di acquisto non potrebbe essere diverso.
Anche per i beni di consumo la situazione è molto simile, in larga parte sono di importazione o al massimo prodotti in loco da JV che dipendono anch’esse dall’estero per tecnologia e componenti, stante la persistente arretratezza e non competitività dell’industria locale, in molti settori inesistente o rimasta a standard qualitativi obsoleti retaggio dell’era sovietica. La politica del “buy russian”, vista la realtà industriale appena descritta e il profilo acquisito dalle attitudini di consumo è irrealistica, non ha nel medio e tanto meno nel breve termine, alcuna chance di potere colmare questo gap di offerta di prodotti di qualità. Indubbiamente si tratta di una situazione di grossa difficoltà ed incertezza per molti operatori occidentali, le disdette di ordini così come i congelamenti di pagamento sono per molti una dura realtà da affrontare nell’immediato. D’altro canto però c’è da dire che i vincoli di mercato che abbiamo visto condizionare gli acquirenti russi nell’approvvigionamento di molti beni, determinando una naturale rendita di posizione per certi fornitori non sostituibili facilmente, lasciano ben sperare per il futuro. Naturalmente a patto che la crisi economica russa non si protragga troppo a lungo e si abbiano le spalle sufficientemente robuste per attendere schiarite, così come c’è da augurarsi che la situazione non degeneri in termini politici o sociali.
Il comportamento di alcuni operatori italiani è in controtendenza, mentre Fiat, meglio dire FCA , ha sospeso i piani per produrre Jeep in Russia, aziende come Benetton stanno spingendo sulla espansione della loro presenza sul mercato e lo stesso vale per Gucci. Benetton è presente da 20 anni sul mercato con 108 negozi, dei quali 20 di proprietà, si tratta quindi di un rapporto storico con il consumatore russo che l’azienda vuole consolidare, così è in corso un rinnovamento dei negozi e la sostituzione graduale dei contratti di franchising con gestioni dirette dei principali punti vendita. Gucci da tempo sta realizzando una consistente espansione nel numero dei punti vendita che gestisce sul mercato russo, ovviamente si tratta di un programma di aperture che è stato pianificato tempo fa e gli investimenti sono di conseguenza già in corso di esecuzione. Parlando sempre di investimenti , un caso eclatante è destinato ad essere quello che riguarda il nuovo Mall Aviapark alla periferia di Mosca, con i suoi 230,000 mq e 550 spazi commerciali è il più grande in Europa , questa mega struttura è stato appena inaugurato il 28 Novembre nel pieno della crisi, resta da capire a questo punto con quali prospettive.
In ogni caso appare evidente che la situazione dei consumi in Russia, stante i fondamentali economici incerti e le prospettive negative per il futuro, è destinata a rimanere depressa e soprattutto non facilmente prevedibile per un lasso di tempo non breve. I prossimi mesi saranno comunque cruciali per capire quale direzione potrà prendere il business.